a cura di Elisa Cozzarini e Alessandra Gabelli
ISBN 978-88-909297-9-3
La mia vita privata e il potere delle immagini.
Sono nata negli anni Sessanta, quando la macchina
fotografica era un lusso. Ma, nonostante la mia famiglia fosse tutt’altro che
ricca, i miei nonni avevano due macchine fotografiche e la camera oscura. Anzi,
chiamarla così è un’esagerazione: nel bagno in comune con un’altra famiglia,
qualche notte, quando tutti dormivano, i miei nonni approfittavano per
chiudersi dentro e dedicarsi alla fotografia sviluppando le pellicole,
riempiendo le vaschette con le sostanze chimiche e poi asciugando le foto sul
filo della biancheria appendendole con le mollette. Come fotografi non erano
bravi. Per me, la loro era tutta fatica sprecata, ma mi ci sono voluti degli
anni per capire che la passione per la fotografia era più forte di qualsiasi
notte insonne e di qualsiasi foto di qualità scadente.
Ora, sfogliando qualche volta l’album di famiglia, provo un
grande senso di gratitudine per quei pochi scatti, grazie ai quali riesco a capire
me stessa, la mia storia, rinnovare la memoria dei posti, dei tempi e degli
eventi. Pensando alla mia famiglia che ha condotto una vita molto modesta e
riservata (come, in realtà, era la vita di molti cittadini dell’Unione
Sovietica), con i comportamenti pubblici e privati improntati a una grande
moralità, è quasi incredibile riscoprire dopo molti anni alcune foto di mia
madre che, essendo una grande esteta e artista, ha posato nuda per mia nonna in
riva a un fiume, in una posa timida e innocente, alla maniera di una Venere botticelliana.
Penso solo per un attimo che se queste foto fossero state scoperte allora,
potevano essere interpretate assai male, con grande rischio per tutta la
carriera di una giovane donna come allora era mia madre. E sono quasi felice
che queste foto abbiano visto soltanto il fondo di un cassetto e dopo la sua
morte siano capitate soltanto a me, anche se adesso non avrebbero fatto nessuno
scalpore. Pensandoci bene, qua si intravede una certa incongruenza: potevi
posare nudo nello studio di un pittore o all'Accademia delle Belle Arti, potevi
essere immortalato con un pennello, ma non potevi essere fotografato. Nella
fotografia, automaticamente, scattava il paragone con la pornografia, anche se a volte le immagini andavano bene
più per le lezioni di anatomia nelle scuole medie che per altro. Per rimanere
in tema, parlando di usi e costumi, mi viene in mente un giorno caldissimo
d’estate del 1980 quando non mi fu permesso di entrare in un cinema alle
quattro di pomeriggio perché avevo un abito con le bretelle (perciò, le spalle
quasi nude) che disturbavano la sensibilità della sessantenne
controlla-biglietti.
Le immagini di quegli anni sono preziose per la loro
semplicità, rarità e unicità. Dal fotografo si andava quattro, cinque volte
nella vita, ci si preparava come per un matrimonio: il parrucchiere, il trucco,
il miglior vestito, mezz’ora per mettersi in posa, luci che ti facevano
sciogliere la cipria sul naso, i maschi arrabbiati e nervosi, le donne più
propense a salvaguardare la memoria di famiglia, i bimbi vestiti come bambole,
a volte in modo ridicolo, con i giocattoli che il fotografo teneva nello studio
e metteva loro in mano per distrarli e procurare, dopo un’ora di prove,
quell'unico sorriso, preso quasi per
esaurimento, che poi trovavi sulla foto.
Erano bravi i nostri fotografi sovietici. Ci sapevano fare
con le persone. Magari perché era di moda il realismo: le feste popolari con le
marce e le parate entusiasmanti, i bimbi nelle braccia dei padri, le bandierine
rosse e i palloncini colorati, la musica che non si sente ma, guardando le espressioni di pura felicità, sembra di
sentirla. E poi, i ritratti degli operai e degli intellettuali, dei personaggi
della scienza e della cultura: tutti messi in posa. Di solito, nel loro
ambiente di lavoro. I visi pieni di sicurezza e la consapevolezza di essere i
migliori. L’orgoglio della città e del paese.
Ogni tanto si riusciva a osservare qualche lavoro
fotografico nei libri dedicati alle bellezze di qualche città: foto fatte
veramente bene, professionalmente, notturni di altissima qualità, senza
ritocchi. Immagini nitide e pulite. Perfette,
insomma. Questi libri costavano moltissimo e di solito venivano regalati
in qualche occasione particolare o facevano parte di qualche omaggio o di un
premio.
Nel frattempo, ogni tanto, anch’io prendevo la macchina
fotografica di mia nonna, la famosa "Kiev", una macchina molto
apprezzata in quelli anni dagli intenditori. Ricordo che dovetti fare da sola
una specie di corso accelerato per imparare le regole elementari della
fotografia. Fu allora che feci i miei primi esperimenti di sovrapposizione di
una foto sull’altra. Sempre in bagno, nella camera oscura improvvisata, ma
questa volta in casa mia e senza che nessuno mi potesse disturbare. Le foto
però, da come ricordo io, erano e rimanevano una questione privata.
La pittura, invece, con la sua perfezione che dipendeva
direttamente dalla mano del pittore, attirava più attenzione, era vista come
una vera arte e per questo era più controllata. Per esporre nelle mostre più
prestigiose, i quadri dovevano passare la selezione severa di una commissione
di qualità del Ministero della Cultura. E, di solito, si sceglievano le opere
di "grande valore"… propagandistico, anche. Non c’entravano più i
manifesti con gli slogan dei pittori famosi russi degli anni Venti, Trenta e,
direi, anche Quaranta, ma piuttosto un pensiero sottopelle, realista,
sovietista, come esempio di una società migliore, illudendosi di rispecchiare
in tutti sensi la grandiosa realtà del comunismo.
Poi, negli anni Ottanta, Novanta arrivarono le prime
macchinette fotografiche più semplici da usare. Sempre a pellicola, ma più
leggere e più veloci. Le macchinette per tutti. A volte mi sembra di aver
vissuto gli anni più belli perché di quel periodo mi sono rimaste una valanga
di foto stampate. Sono le immagini di ogni evento, di ogni esame, della tesi,
del primo concerto, del primo amore: le foto con i capelli bagnati, con i
capelli tinti o tagliati male, i visi senza trucco, i visi con troppo trucco,
le immagini spontanee, le tavolate bandite durante le feste con e senza i
bicchieri alzati e tutto il resto. Credo che noi, in questo modo, volevamo
fermare il tempo, ricordare le cose belle e uniche, le cose che prendevano le
vie nuove del cambiamento globale. Se guardiamo queste immagini, non pensiamo a
quanto brutti o belli eravamo, a quanti chili di più o di meno pesavamo; queste
foto sono la memoria dei nostri stati d’animo. È come sentire una vecchia
canzone che ti ricorda un momento della tua vita particolare e paragonarla a un
sentimento provato in quel momento… Infatti, soltanto noi, i complici di quelle
immagini, possiamo "leggerle" e interpretarle: probabilmente la nuova
generazione dei selfie ci prenderebbe
per matti.
E ora, mi chiederete cosa c’entrano le cose private con la
questione del potere delle immagini, con l'arte e le diversità culturali.
Io non sono una saggista e nemmeno sono un’opinionista. Mi
sono permessa di ricordare alcune cose perché sono un’artista, sono nata in una
famiglia di artisti e continuo a frequentare l'ambiente artistico. Ho deciso di
appellarmi alla mia esperienza personale, quella di una persona che ha vissuto
diverse realtà, diverse epoche e diverse mentalità. Per questo penso che,
indipendentemente, da dove e in che epoca vivi, le immagini di per sé hanno
giocato un ruolo fondamentale per lo sviluppo della mente umana. «Per immaginare, la mente ha bisogno di
immagini»: può sembrare quasi ovvia l'affermazione di Bruno Tognolini,
contenuta nel saggio sulla lettura a voce alta Leggimi forte[1].
Il rapporto con le immagini, credo, inizia già in tenera
età: per poter elaborare il proprio immaginario, per creare rappresentazioni e
storie, noi abbiamo bisogno di possedere un bagaglio di immagini, perché per
costruire il nostro "castello della vita" abbiamo bisogno di una
buona scorta di "mattoncini diversi per forma, colore e grandezza".
Infatti per un bambino in età prescolare, una delle principali fonti di
immagini è rappresentata dalla lettura di libri illustrati, in cui le figure
commentano e integrano il testo. A volte addirittura lo sostituiscono. Le
immagini sono simboli che rappresentano oggetti: possono essere "lette",
cioè decodificate, e "scritte", cioè disegnate. Se dobbiamo pensare
al mondo intero, si capisce quanto alcuni paesi siano ancora lontani da questo
modo di pensare e da questi paramenti di educazione, con evidenti conseguenze
sulla società nella quale vivono.
Il mondo dell’arte è sempre
stato più tollerante e pronto ad adattarsi alle situazioni. Con una certa
sorpresa ho osservato lo sviluppo dell’arte moderna nei paesi dove governava e
governa ancora il severo divieto di produrre le immagini dell’uomo. Per
superare queste restrizioni, alcuni artisti hanno sfruttato le forme dei loro
alfabeti e sono riusciti a creare l’illusione dei corpi femminili e le loro
curve. La figura non si vede, ma si intravede in un movimento stilizzato. È
sicuramente una forma di "protesta camuffata". È così che l’arte
astratta e concettuale viene in aiuto ad alcuni artisti costretti a lavorare in
ambienti restrittivi.
A questo punto vorrei dire
due parole sull’arte. L'arte, nel suo significato più ampio, viene definita da
Wikipedia come «attività umana –
svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di
espressione estetica,
poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme
comportamentali derivanti dallo studio e
dall'esperienza.
Nella sua accezione odierna, l'arte è strettamente connessa alla capacità di
trasmettere emozioni…
Nel suo significato più sublime, l'arte è l'espressione estetica
dell'interiorità umana. Rispecchia le opinioni dell'artista nell'ambito
sociale, morale, culturale, etico o religioso del suo periodo storico». Può sembrare un fiume di parole, ma in realtà
fa capire che a un artista, di qualsiasi calibro egli sia, viene perdonato
tutto. Di questo parla la storia dell’arte, con qualche eccezione durante i
periodi "bui".
Il ruolo delle immagini e
delle parole è fondamentale fin dalle origini dell’umanità. Probabilmente
lingua e arte sono nate, e si sono evolute, insieme. Anche se esiste un detto con
il quale non sono molto d’accordo che dice «un’immagine vale mille parole».
Sicuramente, ma in casi molto particolari. Talvolta poche parole possono valere
più di mille immagini. Spesso un’efficace combinazione di testo e di
comunicazione visiva funziona meglio di quanto l’uno o l’altra potrebbero fare
da sole. Può sembrare banale, ma in realtà non lo è. Anche se le parole dello
storico tedesco dell’arte Hans Belting mi hanno fatto ripensare all’argomento:
«Il culto delle immagini è ovunque e cancella i testi. Anche in passato erano
importanti ma ora, grazie ai media, sono onnipervasive».
È chiaro che viviamo nell’era dell’immagine. Internet e
social network sono diventati la fucina della nuova comunicazione. Basti
pensare che su Twitter il più alto numero di retweet totalizzato è stato
raggiunto proprio da una foto, quella che immortala l’abbraccio tra Barack
Obama e la moglie dopo la rielezione alla Casa Bianca.
Ma uno dei problemi dell’immagine odierna (specialmente se è
una fotografia) è che tendiamo a percepirla come "vera", cioè, uguale
a ciò che vedremmo se fossimo lì a guardare con i nostri occhi. Non lo è mai. È
sempre, in qualche modo, un'interpretazione. A volte mi piacerebbe sapere cosa
pensano le persone che vivono in un paese molto diverso dal mio quando guardano
le foto che noi postiamo (per esempio) su Facebook.
Le immagini ci
aiutano o ci confondono?
Ricordo alcuni anni fa quando, appena iniziò il conflitto
fra Ucraina e Russia, l’unico modo per sapere qualcosa era Facebook e Twitter.
Nonostante la mia conoscenza di Photoshoop ed alcuni trucchetti fotografici,
sono stata vittima di fotomontaggi apparsi allora. Alcune immagini di soldati
ucraini in uniformi fasciste viaggiavano in un autobus di linea con i
sottotitoli: "Naziskin a Kiev", il giorno dopo "Naziskin a
Leopoli", e così via. Ancora più imbarazzante era l’immagine di due uomini
(padre e figlio) la cui faccia era coperta di sangue e che venivano presentati
come gli eroi di Maidan. La "bufala" uscì fuori quasi subito: un po’
di colore rosso rovesciato sulla faccia e la scena aveva avuto successo.
Ma, a parte questi due casi nei quali mi sono imbattuta
personalmente, molto spesso provo una forte diffidenza verso le immagini che
appaiono su Internet. Oggi abbiamo una quantità di informazioni più grande di
tutta la precedente storia dell’umanità. Questa è, ovviamente, una risorsa. Ma
non è e non può essere una garanzia di qualità. Non è un problema
"nuovo". L’informazione e la comunicazione sono in gran parte false (o
almeno confuse, imprecise e "parziali") anche quando sono "poche".
La differenza, oggi, sta nel fatto che abbiamo molte più possibilità di
dubitare e controllare. Ma non abbiamo ancora imparato bene a usare questa
risorsa. Ho la netta sensazione che la democratizzazione abbia creato una
proliferazione di "testimonianze" prive di qualsiasi valore. Invece,
restano come fonte di piacere visivo e nello stesso tempo di testimonianza
storica, ad esempio, le foto delle copertine del National Geographic. Esse, nella fusione unica di bellezza e
documento, hanno creato uno stile difficile da imitare. Uno stile che resta un punto fermo nella storia e che dà piacere intellettuale educando al
gusto artistico.
Tornando a me… nel frattempo sono passata ad una macchina
digitale, poi a una reflex e alla fine a una full-frame. Dicono (i fotografi
veri) che sono già in ritardo. La quantità di foto che ho scattato è così
grande che a volte mi chiedo se vale ancora la pena di continuare a portare
tutti questi pesi quando basta un telefonino da pochi soldi per immortalare
ogni secondo della propria vita. E sono sicura che non ci sia nessuna
differenza fra un scatto fatto alle 12.00 e uno fatto (per esempio) alle 12.10.
Viviamo in un mondo in cui alla fine
ogni cosa è immagine. E vince sempre chi riesce a ottenere l'immagine
"migliore".
Così,
oggi, abbiamo tre canali per i quali l’immagine è diventata un elemento
portante nella comunicazione di massa: pubblicità, giornalismo e Internet.
Anche se devo dire, che ultimamente la fotografia domina anche le fiere d’arte,
sostituendo l’arte fatta con il pennello. Non so se fra qualche centinaio di
anni, questo fatto sarà chiamato "avanguardia" del ventunesimo
secolo. Chissà. Magari ha ragione John Berger quando dice: «L’arte del passato non esiste più nelle forme in cui esisteva un
tempo. La sua autorità si è persa. Al suo posto vi è il linguaggio delle
immagini. Ciò che conta ora è chi usa questo linguaggio e a quali fini». Del
resto è legittimo sospettare che nel momento in cui si afferma sempre più la
fotografia, che semmai ritrae precisamente e non cerca di copiare la natura,
l'arte abbia scelto altre forme per esprimersi, riponendo più attenzione alle
sensazioni interne all'uomo, dando cioè voce e immagine al pensiero e
all'inconscio.
E qua mi fermo… per non
sprofondare in questioni che sono molto più grandi dei miei pensieri di "consumista"
e di idealista, ma sicuramente so che, nonostante viviamo nell’epoca delle
immagini, degli altri sappiamo molto e non sappiamo niente.
Anzi, pensiamo di essere dei professorini invece siamo
ancora all'asilo.
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