POSSIBILE INDIVIDUAZIONE
DI UN ITINERARIO CONOSCITIVO E AUTOCONOSCITIVO DA “TERRA ALTRUI” A “CONFIDENZE
CONFIDENZIALI”.
Già dal titolo. Già dai
titoli. Si potrebbe di primo acchito, ma in modo parziale e superficiale, come
vedremo, parlare di topografia esteriore e di topografia interiore come
caratteristiche fondamentali, essenziali, peculiari che contraddistinguono le
due sillogi poetiche di Natalia Bondarenko che verranno prese in esame di
seguito. In tal senso si potrebbe così far riferimento a una sorta di
“topografia esteriore” relativamente a “Terra altrui” e di “topografia
interiore” a proposito di “Confidenze confidenziali”. Ma evidentemente, come si
è accennato e come si vedrà, le cose non stanno, per lo meno esclusivamente,
sic et simpliciter, in questi termini. O non solo in questi termini. Sarebbe
appunto troppo semplice, banale, prevedibile, scontato.
Veniamo dunque ad esporre più
precisamente e dettagliatamente ciò che si intendeva dire a proposito dei
titoli stessi. Leggendo con attenzione queste due raccolte, magari di seguito,
pare d’individuare un possibile itinerario, sia conoscitivo, sia soprattutto
autoconoscitivo che, nelle sue principali connotazioni, nelle sue specifiche
peculiarità ci viene già in parte anticipato, suggerito, appunto dai titoli
delle sillogi. “Confidenze confidenziali” sembrerebbe presupporre infatti la
presenza inevitabile di un interlocutore con cui potersi confidare, a cui
esporre la propria “topografia interiore” (o quanto meno vengono suggeriti
l'anelito, la ricerca, il desiderio di trovarlo questo eventuale
interlocutore), mentre “Terra altrui” parrebbe comunicarci la presenza di
qualcosa di inanimato, la terra appunto, che al limite può essere il substrato
necessario affinché la vita, il dialogo si sviluppino, ma che vita e dialogo
ancora non sono; questo qualcosa comunque si trova, è situato concretamente
fuori da sé, è appunto “topografia esteriore” (vedremo di seguito come questi
due concetti sovente possano interagire, interloquire fino di fatto a sovrapporsi).
E con qualcosa che vita non è, che è inanimato, dialogare, “confidarsi” non è
con ogni evidenza possibile, a meno di non cadere in un vano e folle
soliloquio. Ed in più questo qualcosa, questa terra è “altrui”, viene sentita
quindi come estranea, aliena, non propria, e probabilmente propria non lo sarà
mai. Peraltro non è che i vari interlocutori “in carne ed ossa” presenti in
“Confidenze” siano sentiti sempre vicini, adeguati, compassionevoli (nel senso
che possano condividere le varie, molteplici e multiformi “passioni” dell’animo
umano), anzi. Forse sono ancor più colpevoli, in quanto viventi, di estraneità,
di alterità. Ma quanto meno con un essere vivente e senziente si può concepire
l’illusione, fugace, ma che pur sempre costantemente si rinnova, di un dialogo.
In un vivente si può individuare il ricettacolo, il destinatario delle proprie
confidenze. Illudendosi, forse. Almeno questo è quanto non di rado possiamo
ricavare dai versi dell’autrice. Va anche poi detto che il concetto di terra,
nel suo immenso campo semantico, presuppone innumerevoli possibili significati,
smisurate sfaccettature e sfumature. La terra può, come si è visto, essere
fondamentale presupposto alla vita; il concetto di terra può quindi veicolare
il concetto di fertilità, di generazione, di ri-generazione e così via, ma può
altresì comportare anche i concetti di separazione attraverso un confine, un
limite più o meno naturale e quindi un senso di possesso, che evidentemente
presuppone i concetti di proprietà e conseguentemente di estraneità, di
privazione rispetto a questa proprietà. I componimenti di “Terra altrui”, a mio
modo di vedere, sottolineano, piuttosto che le possibilità generative,
vitalistiche della terra, le sue caratteristiche di suddivisione, di
separazione, sovente arbitraria e dalle origini cruente, tra ciò che appartiene
e ciò che non appartiene. Del resto il titolo è decisamente esplicito, a tale
proposito.
Fatte queste premesse
iniziamo dunque ad esaminare più nel dettaglio la poetica dell’autrice, le
caratteristiche peculiari della sua versificazione, nonché le similitudini, le
differenze rilevabili tra le due raccolte prese in considerazione.
Non sembra azzardato rilevare
nei versi di Natalia Bondarenko la radice della più autentica anima russa, e
questo sotto molteplici aspetti, ma preme sottolineare in particolar modo la
possibile relazione che intercorre tra la poesia della nostra ed il concetto di
“straniamento” (отстранение) per come lo intendeva il critico russo Viktor
Sklovskij, laddove quest’ultimo evidenziava come sia possibile percepire,
conoscere la realtà, anche e soprattutto la più consueta, abituale, come se
fosse qualcosa che s’incontra la prima
volta, generando una sequela di situazioni o rapporti imprevedibili. E
Sklovskij, per meglio illustrare questa sua teoria, ricorre a un racconto di
Tolstoj, “Kholstomer”, che narra la vita di un cavallo vista da parte del
cavallo, con gli occhi del cavallo, con i pensieri, la logica ed i sentimenti
del cavallo. E’ evidente che agli occhi di un ipotetico umano la stessa realtà
oggettiva, ancorché banale, consueta, quotidiana risulterà ora impensabilmente
nuova, sorprendente, trasfigurata, appunto straniante, alienante e alienata
laddove considerata secondo l’ottica di un equino. E questo senso di
straniamento, di alienazione è a tratti potentissimo nella poesia di
Bondarenko, vuoi anche, se non soprattutto, per il fatto di trovarsi come si è
visto in una “terra altrui”. E colui il quale è abituato da una vita a vivere
in questa terra, che invece per lui è “propria”, leggendo questi versi,
dovrebbe trovarsi in una condizione non dissimile da chi avesse letto le
considerazioni del cavallo di cui sopra, considerazioni evidentemente difformi,
contraddittorie, antitetiche rispetto a quelle del suo, poniamo, proprietario,
ancorché relative ad una apparentemente identica realtà fattuale.
Ed in tal senso è proponibile
anche un possibile aggancio al concetto di ribaltamento dei valori e dei ruoli
di cui parla un altro importante critico russo, ovvero Michail Bachtin, che nei
suoi studi su Rabelais e la cultura popolare, identifica nei vari rituali
carnascialeschi la possibilità di rinnovamento del singolo individuo proprio in
quanto inserito in un contesto “straniante”, nuovo, inedito, in cui tutte le
convenzioni e tutti i ruoli risultano sovvertiti, ribaltati. Tutto viene visto
con occhi nuovi. Vedremo di seguito, esaminando alcuni esempi concreti di versificazione,
come in essi si possa ravvisare quella che potremo non indebitamente chiamare
appunto una poetica dello straniamento.
Ed è anche la condizione di
viaggiatore, di ospite in una “terra altrui” a costringere a vedere il tutto
nonché ogni singola, specifica cosa con “occhi nuovi”; a tale proposito vengono
in mente le parole di un altro scrittore russo, Isaak Babel’, che in uno dei
suoi racconti appartenenti alla raccolta “L’armata a cavallo” presupponeva la
necessità della distanza, di porsi al di fuori, in lontananza, per poter meglio
distinguere, considerare e valutare “sia il singolo albero così come l’intera
foresta”. Da una certa distanza, quindi, si riesce a contemplare meglio e a
meglio comprendere anche quello che è il proprio paesaggio interiore, per
quello che è nella sua interezza e globalità. Topografia esteriore ed interiore
non sono elementi così dissimili ed inconciliabili, dunque.
E un’inedita, sorprendente
sintesi straniante, che ha senz’ombra di dubbio anche l’intento specifico e
deliberatamente ricercato di spiazzare il lettore, di lasciarlo vagamente
interdetto e confuso, viene sovente ottenuta tramite l’accostamento inconsueto,
sorprendente d’immagini e di concetti tra loro distanti, non familiari,
difficilmente compatibili nella pratica quotidiana, fino quasi a raggiungere
una sovrapposizione degli stessi, in modo da rendere pressoché inconoscibile la
loro specificità originale, un po’ come accade nell’esperienza onirica, laddove
sorgono inedite, nuove entità, laddove un oggetto, un qualsivoglia oggetto (ma
potrebbe trattarsi anche di un luogo, una persona, un animale etc.) in seguito
all’esperienza del sogno non è appunto più lo stesso di prima, non è più
conoscibile, riconoscibile per com’era precedentemente. L’esperienza onirica ha
la funzione di trasfigurare l’”oggetto” che lo riguarda, di renderlo
definitivamente nuovo, irriconoscibile. E sotto numerosi aspetti la poesia di
Bondarenko richiama gli aspetti ora citati, riuscendo a stimolare nel fruitore,
come peraltro l’arte dovrebbe sempre fare, l’insorgere di inattese epifanie.
Si è anche detto poc’anzi
dell’utilizzo di termini dall’ambito semantico distante, a tratti
contraddittorio, come strumento atto ad ottenere la sorpresa, la novità, lo
straniamento. La terminologia utilizzata dalla nostra solitamente è
estremamente realistica, trae spunto costante dal quotidiano, non raramente è
cruda, a tratti addirittura crudele, spietata, del tutto priva di fronzoli, di
qualsivoglia senso di autocompiacimento. Numerosi sono gli esempi che si
potrebbero citare a tale proposito. Parallelamente a ciò va inoltre detto come
l’autrice faccia ricorso, con esiti estremamente significativi, a momenti di
sinestesia, laddove il colore diventa suono (ricordiamo che è anche pittrice e
fotografa), il suono colore, laddove sensazioni tattili si mescolano e si
confondono con sensazioni olfattive, uditive, visive e via dicendo. Un esempio
particolarmente significativo che può illustrare quanto appena detto lo si può
trovare, a mio modo di vedere, nel verso “La neve prendere a schiaffi la
pelle…”. E’ evidente l’inconsuetudine dell’immagine proposta, in quanto la neve
(di per sé più che altro un “concetto visivo”) viene di solito associata ad
assenza o quasi di suono (mentre, dal punto di vista appunto “sonoro” lo
schiaffo possiede addirittura una sua specifica versione onomatopeica,
addirittura fumettistica), in quanto la neve corrisponde a qualcosa di
estremamente soffice, ovattato, affatto privo di violenza e brutalità (a meno
che non si tratti di una tempesta di neve, evidentemente). Quest'immagine non è
del tutto dissimile, paradossalmente, dal concetto zen di riuscire ad udire il
suono di uno schiaffo nel vuoto, cosa di per sé, con ogni evidenza, alquanto
improbabile.
Si è quindi detto della
tecnica dello straniamento, della ricerca di dare nuovo significato alla
parola, della necessità di darle, ridarle valore spogliandola di quanto di
banale, di abusato la riguarda. Viene sentita la necessità di donare una nuova,
sincera, “verginità” alla parola, ad ogni singola parola, anche a costo di,
parafrasando alcuni versi contenuti in “Confidenze confidenziali”, renderla
sovrumana, di balbettarla, di massacrarla, di appenderla, quasi fosse un
condannato a morte, a una corda, a un cappio. E tutto ciò, ce lo dice l’autrice
stessa, per “farla guarire”, per farla sentire “viva prima di morire”. Perché
la morte sarà inevitabile premessa di rinascita, di rinnovamento, così come il
viaggio, voluto o imposto che sia. Ritornando quindi brevemente al concetto
esposto in precedenza di dover quasi brutalizzare qualcosa che magari in
precedenza era stato indubbiamente carico di un portato estetico importante, ma
che in seguito è stato irrimediabilmente banalizzato dall’abuso di cui è stato
vittima, onde ridargli vita, senso, significato, si potrebbe individuare una
possibile analogia a quanto fatto da Marcel Duchamp alla Gioconda (ricordiamo
nuovamente l’attività figurativa di Bondarenko). In sintesi: per far vedere
quanto era bella la Gioconda senza i baffi, i baffi dovevano esserle dipinti.
Si è accennato in precedenza
alle scelte lessicali e linguistiche dell’autrice, che nella maggior parte dei
casi ha ricorso a un vocabolario che trae
spunto dal quotidiano, non tralasciando espressioni crude, violente. Tali
episodi si alternano tuttavia con momenti, diremmo, più lirici, come peraltro
avviene nell’esperienza onirica, laddove il sogno lascia spazio all’incubo, si
alterna, si sovrappone, si mescola all’incubo. Così come nella vita. E alla
vita, a tutta la vita, alla vita nella sua interezza Bondarenko si ispira. Trae
spunto, potenzialmente, da ogni cosa. A priori tutto può essere oggetto e
soggetto legittimo di poesia. Come diceva Gregory Corso, si può concepire la
magia (la poesia) dal più banale luogo comune (“out of commonplace”), e Allen
Ginsberg si spingeva ancor oltre, attribuendo connotazioni di santità (Holy…
holy… etc.) a ogni aspetto dell’esistenza (ma già San Francesco d’Assisi,
qualche anno prima di lui, aveva peraltro intuito qualcosa di non dissimile).
La ricerca di un nuovo,
inedito significato, o quanto meno di un significato riconquistato, a proposito
della parola, la ricerca di una sua possibile nuova, inedita, o quanto meno
riconquistata, “verginità” è tuttavia metafora e preludio alla ricerca di un
nuovo, o quanto meno riconquistato, significato che riguardi l’esistenza. E
l’artista possiede appunto la parola, il suono, il colore etc. come possibili,
potenziali strumenti con cui condurre questa ricerca. Che è poi ricerca anche
di redenzione, altro motivo portante della poesia di Bondarenko, in particolar
modo in “Confidenze confidenziali”. E per poter giungere a una possibile
“redenzione” (si veda il sopracitato concetto di “santificazione del tutto”),
bisogna tuttavia passare attraverso un difficile, complesso, penoso processo di
comprensione, e quindi di ri-valutazione e accettazione di ogni aspetto
dell’esistenza. A cominciare dalla nascita. Ogni evento necessita una
rilettura, una reinterpretazione, una riconsiderazione (numerosissimi sarebbero
gli esempi che si incontrano in tal senso nell’opera di Bondarenko); ogni qual
cosa, anche quella apparentemente più incomprensibile, impensabile,
ingiustificabile deve essere ripensata, riconsiderata, reinterpretata. Quanto
meno per poter sopravvivere. Prima di tutto a sé stessi, al proprio passato (ma
anche al proprio presente e al proprio futuro), con cui è assolutamente
necessario venire a patti, ancorché ciò sia estremamente difficile, ancorché il
passato non di rado venga interpretato come una sorta di tiranno da cui non ci
si riuscirà mai ad affrancare del tutto, completamente:
“...
Però,
non ho scelta e devo stare dentro tutte queste
cose,
devo continuare ad essere obbediente alle
lacrime,...”
Va inoltre sottolineato come
un'ulteriore difficoltà da affrontare sia per la nostra autrice connessa al
fatto di essere una donna; ovunque troviamo, tra i versi di entrambe le
raccolte, riferimenti ai problemi relativi a una condizione femminile che rende
oltre modo impervio il percorso di chi voglia affermarsi ed essere riconosciuto
come artista a tutti gli effetti, ma soprattutto come “persona”. In tal senso,
ma anche in questo caso gli esempi a cui far ricorso sarebbero innumerevoli,
pare particolarmente significativa la chiusa della poesia con cui inizia
“Confidenze confidenziali”, laddove si legge, con evidente allusione alla
morte:
“Ma...
porca miseria!
Dovevo
uscire con le gambe avanti
per
saper camminare da sola.”
E per chi sente e considera
con così profonda e disillusa sofferenza la propria condizione di alienazione,
di solitudine, di mancanza, di vuoto, la necessità di incontrare, di
individuare un possibile interlocutore (sovente anch'esso illusorio,
“sbagliato”) con cui rapportarsi diventa una necessità inevitabile, diremmo
quasi fisiologica. In “Terra altrui”, in tal senso, l'interlocutore d'elezione,
se non addirittura l'unico possibile, sembrava essere soltanto la propria
ombra, come si può ricavare dai seguenti versi:
“Mi
hai creduto pazza
nel
sentirmi parlare a voce alta e ridere
ballando
sull'asfalto bagnato dalla pioggia
appena
atterrata
ho
trovato un interlocutore interessante
che
era disposto ad ascoltarmi e
permetteva
di toccarlo fin con le scarpe.
Era
la mia ombra.”
In questi versi ritorna
prepotentemente il tema dello straniamento: l'ombra, con ogni evidenza, c'è
sempre stata, è sempre stata presente, ma ora viene considerata, riconosciuta,
conosciuta con occhi nuovi, vista come fosse la prima volta.
In “Confidenze confidenziali”
la necessita di confronto con un interlocutore diviene ancor più presente,
pressante, potente. Tale necessità s'incarna in numerose figure, più o meno
reali, più o meno esistenti, concrete, anche se non è forse del tutto azzardato
ipotizzare che Bondarenko, di fatto, più che rivolgersi a persone specifiche,
individualizzate, si rivolga a ciascuno di noi in qualità di lettori, di
“hypocrite lecteurs”, e per attrarre la nostra attenzione, probabilmente anche
la nostra partecipazione, di certo non si risparmia. Il lettore avrà modo,
leggendo le poesie della nostra, di verificarlo di persona.
Riprendendo quindi e
ulteriormente il succitato concetto di straniamento nonché le varie difficoltà
specifiche legate alla peculiare condizione di donna e di migrante
dell’autrice, alcuni significativi esempi si possono riscontrare nei seguenti versi:
“Senza
amore
boccheggio
come un pesce fuor d’acqua,
sbatto
la coda sul tagliere per protesta,
con
l’occhio ben lucido, ancora per poco,
che finisce
per
chiedere pietà ad un coltello appeso al muro.
Avessi
i piedi – andrei a cercarlo,
(l’amore… intendo)
anche
sui carboni ardenti della griglia pronta
che
più degli altri mi capisce.”
Oppure:
“Volevo
essere anch’io tutta sua
con
un anello sulla zampa
pieno
di dediche per sempre
stare
nel mio cortile,
volare sempre basso,
ingrassare
per bene
per
essere cucinata
nel
giorno del (suo) ringraziamento.”
Laddove l’autrice si
reinventa, si propone quale oggetto, argomento “gastronomico” nel tentativo di
intraprendere una qualche forma di comunicazione con il proprio potenziale
interlocutore.
Ed in questa condizione di
svalutazione definitiva e assoluta di qualsivoglia rapporto umano, tutto viene
visto e considerato in un ottica di tipo mercenario, in cui impera una corsa al
ribasso per ciò che riguarda quelli che di fatto di solito vengono, appunto,
considerati come “valori” indubitabili, a cominciare dall’ “anima”:
“Ieri
notte
nel
sogno,
ho
chiesto tramite Goethe
al suo amico prediletto, Mefistofele,
cosa
pensa di me compresa la mia anima,
e stanotte,
nella
fretta del risveglio
ci
siamo messi d’accordo sul prezzo
(non sapevo che i saldi
fossero iniziati da un pezzo).”
Poiché se si rimane
esclusivamente legati al gioco delle apparenze, se si considerano e si valutano
solamente queste ultime, il risultato finale non può non essere che di
alienazione, d’incomprensione, di smarrimento. Si vedano in tal senso i
seguenti versi (anche se gli esempi a tale riguardo potrebbero essere molto più
numerosi):
“Mi
prendi in giro tu
per
come parlo la tua lingua,
per
come sfuggo alle sue regole
per
come la maltratto (per forza di cose),
ma
è soltanto un fatto di abitudine,
trasmesso
da madre a figlia, dal seno al sangue,
dalla
radice all’albero che combatte la sete
e non muore. Perciò, stai rimbambocciato
quando
prego, le mani nelle tasche,
nel
caso peggiore – dentro il naso, a dubitare
della
mia vecchia abitudine
di
rimanermi fedele. Sapessi com’è difficile
abituarsi
all’ignoto. Mi prendi in giro (tu)
per
come vivo senza vivere. Per come tento
di
vivere quando spezzo il pane o
taglio
a cubetti regolari la verdura
per
l’insalata russa che non ti piace
dentro
un alveare umano
prima
che suoni il campanello
dove
il vicino è soltanto uno sconosciuto
e
tu,
che
dividi il letto con me
sei
ancora più sconosciuto del mio vicino.”
Eppure, quasi ne fosse filiazione
diretta, l’apparenza sembra condurre in modo diretto, quasi inevitabile, all’
“abitudine”, alle “bugie della routine”, in un percorso, a tratti estremamente
banale e lineare, a tratti complesso, confuso, vorticoso, ma contraddistinto
dall’ineluttabilità e dall’irreversibilità. Anche a tale proposito gli esempi
che si potrebbero segnalare sono numerosi, tuttavia si consideri quanto viene
espresso di seguito:
“Piangere
(non esiste la certezza del tuo
piangere
come non esiste un libro nella
mia libreria
con le pagine ancora incollate,
golose di occhi)…
Le
parole – noccioline da sgranocchiare,
(meglio se coperte di cioccolato)
si incastrano fra i denti, tagliano la lingua,
senza
ferire
(è
questione di abitudine).
Da
evitare
la
fine dell’estate comprese le acque passate
le
docce senza conto, comode per piangere,
le
guerre degli orari, le bugie della routine,
la
resa precoce davanti a un silenzio d’acciaio
(fatto di forchette e di coltelli,
di serrature senza chiavi)
le
diete a base di yoghurt e cereali, il “miagolio”
di
Philip Glass e le previsioni del tempo
per
il resto,
come
ti dicevo prima,
è,
soltanto, una questione d’abitudine.”
Viene infine, leggendo le poesie di
Natalia Bondarenko, da chiedersi che cosa quindi per lei possa rappresentare
l'arte, la poesia. Una risposta univoca ed esaustiva è evidentemente azzardata,
limitante e limitata. Non ritengo, tuttavia, del tutto impropria la definizione
di arte intesa come
“... un atto di malcelata
seduzione, o meglio, è un tentativo di seduzione, ovvero, nella peggiore (e più
auspicabile) delle ipotesi, un mancato atto di seduzione mancata...
E' quindi, diviene quindi, un
atto di rabbiosa vendetta, un atto di “espressione”, nel primitivo significato
di ex-pressione, un atto di vera e propria violenta, selvaggia, irriflessa
spinta, espulsione verso l'esterno di ciò che l'animo esasperato ed esausto
dell'artista non riesce più a contenere, a sopportare...
L'arte in sintesi è il
tentativo di riunire, di assemblare in un discorso lineare, comprensibile
l'indecifrabile, inesprimibile polifonia-polifobia dell'anima...”
In un processo continuo, irrisolto ed
irrisolvibile in cui itinerario conoscitivo e autoconoscitivo, necessariamente,
inevitabilmente, coincidono. Nell'opera di una poetessa che nella sua
particolare condizione di donna e di artista in una “terra altrui” dopo tutto
conclude affermando:
“...
e
le finestre ad Est, chi sa perché, terrò sempre aperte.”
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