Francesco Tomada su VIETATO AGGRAPPARSI AI SOGNI!

prefazione


Anche se in poesia le parole dovrebbero vivere indipendentemente da chi le ha create, è difficile addentrarsi in questa raccolta senza rileggere, almeno per sommi capi, le note biografiche dell’autrice: Natalia Bondarenko è infatti nata a Kiev in una famiglia ricca di stimoli artistici e nell’arco degli anni, accanto alla sua attività di fotografa, ha composto sceneggiature per lavori teatrali, racconti, romanzi, poesie. Nel 1990 si è trasferita in Italia, e da alcuni anni scrive direttamente nella nostra lingua con un notevole consenso tanto di critica quanto di pubblico.
Già da queste poche notizie si possono intuire alcune delle peculiarità del lavoro che teniamo tra le mani. La poesia di Natalia Bondarenko infatti poggia sulle solide basi di un percorso personale e culturale ben definito, ma almeno per alcuni aspetti il cambiamento linguistico le conferisce le caratteristiche proprie di un nuovo inizio, o quantomeno di una ripartenza. Anche in quest’ottica può essere inquadrata la prolificità dell’autrice, che negli ultimi quattro anni ha dato alle stampe le raccolte Profanerie private (Guarnerio Editore), Terra altrui (Samuele Editore), Confidenze confidenziali (Rayuela Edizioni), ed oggi la raccolta “Vietato aggrapparsi ai sogni!”, che include testi tratti da tutti i libri precedenti, uniti ad un consistente numero di inediti più recenti. L’impressione è che Natalia Bondarenko abbia aspettato il tempo necessario per impadronirsi dell’espressività dell’italiano, permettendo così alle parole e alle immagini di trovare la giusta dimensione, e che soltanto poi abbia – giustamente – reclamato il diritto di essere letta ed ascoltata. Questa raccolta assume così una duplice connotazione che è anche il suo valore aggiunto: da un lato è una fotografia su ciò che l’autrice esprime oggi, dall’altro descrive lo svolgersi di un percorso letterario che nella realtà è molto più lungo di quello che gli anni trascorsi dall’uscita di Profanerie private potrebbero suggerire.
Infatti la poesia di Natalia Bondarenko, come si è detto, cresce su radici metabolizzate in modo personale e profondo, ed appare in diretta continuità con la produzione novecentesca che ha scavato nell’antilirismo e nella sperimentazione. I primi testi, in particolare, evidenziano spesso un certo gusto per l’assurdo, sfiorando quasi atmosfere surreali o di asciutta ironia: “Sai / pensare a te – è un lavoro usurante” o ancora “da oggi alla tua precoce calvizie / mancherò anch’io”. Si tratta di una scrittura tagliente, certamente non cattiva ma sincera fino a sembrare spietata, che riesce a dimostrarsi fruibile ed immediata senza diventare accomodante e che ha la capacità, attraverso l’alternarsi di vuoti e pieni, di pause e accelerazioni, di rendere poetica una lingua ricca di spigoli ed angoli acuti.
È un contesto in cui anche la padronanza dell’italiano riveste un ruolo importante: padronanza certamente ottima, ma probabilmente diversa da quella che potrebbe essere quella di un madrelingua. Ci sono momenti in cui si evidenziano scelte lessicali che sfuggono alle più comuni categorie logiche a cui siamo abituati, e l’effetto è indubbiamente straniante. Già nel titolo della raccolta Profanerie private spicca quel neologismo, “profanerie”, che racchiude in sé la pienezza di un significato e al tempo stesso la forza di un vocabolo innovativo; lo stesso approccio si trova in molti dei testi di Natalia Bondarenko, che riesce così a conferire al lessico utilizzato una potenza evocativa fuori dal comune: “Il mio nome è Natalia, /…/ di una banalità estrapolante / poco funzionante”, “l’omelia delle zanzare”, fino a giungere a quello “strudel dell’anima” che può forse strappare un sorriso, ma è un sorriso che non fa altro che sottolineare l’inquietudine che l’immagine riesce in pochissime parole a rappresentare.
È c’è soprattutto Natalia Bondarenko, come afferma lei stessa: “adesso, comunque, ci sono solo io.” È una osservazione che potrebbe sembrare scontata, ma che garantisce autenticità e verità alla scrittura nella misura in cui l’autore si rivela e si mette in gioco. Natalia Bondarenko lo fa in modo totale, a volte apparentemente mutevole ma sicuramente sincero, e per questo, come tutti, oscilla fra gli stati d’animo che circoscrivono un essere umano: è ironica anche con se stessa nel definirsi “un’oca migrante”, è tenace nel suo “testardo rimanere inguaribile”, è conscia del trascorrere del tempo e contemporanea-mente orgogliosa quando afferma che “la mia chioma bianca / può ancora essere pericolosa.”
La stessa inquietudine accompagna un altro dei temi fondamentali della poesia di Natalia Bondarenko, quello del rapporto di coppia. L’amore è forse, fra i molteplici aspetti della sua scrittura, quello dove diventa più evidente la distanza tra il desiderio e la sua effettiva concretizzazione; verrebbe da dire, anzi, che la scrittura della Bondarenko si insinua in questo distacco, scava nella crepa che si spalanca e da questo punto di osservazione – scomodo e spesso doloroso – racconta il percorso fatto e quello che resta da fare. È  un amore che a volte viene definito da tutto ciò che ne individua la mancanza, quando non deve essere “soltanto un innocuo tormento”, o quando corre il rischio di venire soffocato dalle abitudini e dalle parole non dette perché “mancano le spiegazioni a due corpi che hanno smesso di fare l’amore”; in altri momenti diventa uno territorio immenso e possibile, una somma di “spazi pronti per la bufera”. In tutti i casi, però, va cercato e costruito, e dunque la sofferenza sembra essere un prezzo necessario da pagare anche se dovesse rivelarsi soltanto un’illusione: “ho già inventato / un amore di seconda categoria / poiché / la prima, / se i miei calcoli sono giusti, / è soltanto il surrogato della seconda” scrive Natalia Bondarenko in questi versi limpidi, disillusi e pieni di speranza al tempo stesso.
Accanto alla dimensione dell’”io” e a quella del “noi due”, nelle poesie di Natalia Bondarenko trova spazio anche una dimensione plurale e collettiva. Ciò accade soprattutto nei testi più recenti, quando lo sguardo si allarga per cogliere una vita che in ambito sociale sembra costruita di “coriandoli e maratone, / del corri-compri per abitudine”, o ancora di “caffè senza gusto” e “tacchi alti fuori dal tempo”. L’immagine, piuttosto amara, che ne scaturisce stride in modo violento con l’interiorità dell’autrice e con la sua storia personale, e mentre nella maggioranza dei passaggi l’osservazione porta ad una critica implicita, in altri diventa invece molto più diretta, come quando scrive “nel paese dove vivo ora / le sigarette – non fanno nulla. Le persone / con i loro pregiudizi ti fanno morire prima”. Ma si tratta soltanto di pochi momenti di – giustificata – indignazione, perché Natalia Bondarenko sa che il rischio di una poesia troppo esplicitamente civile è quello di apparire forzata e didascalica; preferisce piuttosto un atteggiamento meno rigido ma più sincero ed efficace, rifiutando un integralismo di facciata (“non biasimo il poco, / il niente, / il silenzio che non è mai abbastanza”) ma reclamando con forza il diritto all’espressione dell’interiorità: “(biasimo) soltanto / il terrore di apparire troppo superficiale”. L’aspetto più leggero della vita non è dunque un male ma al tempo stesso non può diventare un fine, ed ecco allora che prende corpo la ricerca di una solitudine necessaria, vissuta non tanto come fuga quanto come momento necessario di sedimentazione della propria umanità. Non c’è atteggiamento autocommiserativo in questa poesia, nemmeno quando afferma di cercare di “evitare conversazioni inevitabili, / con poca musica, poca poesia / e molta solitudine”, ma non c’è nemmeno il rifugio in una speranza utopica di cambiamento, perché anche il giornale scrive che è “vietato / aggrapparsi ai sogni”. Se - per fortuna - esiste una forma di resistenza, essa è affidata al coraggio, alla limpidezza umana, alla tenacia di un percorso che cerca la profondità anche dolorosa degli affetti, per potersi concretizzare nella “geniale con-dizione di cambiare l’immutabile”.


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