prefazione
Anche se in poesia le parole dovrebbero vivere indipendentemente da chi le ha create, è difficile addentrarsi in questa raccolta senza rileggere, almeno per sommi capi, le note biografiche dell’autrice: Natalia Bondarenko è infatti nata a Kiev in una famiglia ricca di stimoli artistici e nell’arco degli anni, accanto alla sua attività di fotografa, ha composto sceneggiature per lavori teatrali, racconti, romanzi, poesie. Nel 1990 si è trasferita in Italia, e da alcuni anni scrive direttamente nella nostra lingua con un notevole consenso tanto di critica quanto di pubblico.
Già
da queste poche notizie si possono intuire alcune delle peculiarità del lavoro
che teniamo tra le mani. La poesia di Natalia Bondarenko infatti poggia sulle
solide basi di un percorso personale e culturale ben definito, ma almeno per
alcuni aspetti il cambiamento linguistico le conferisce le caratteristiche
proprie di un nuovo inizio, o quantomeno di una ripartenza. Anche in quest’ottica
può essere inquadrata la prolificità dell’autrice, che negli ultimi quattro
anni ha dato alle stampe le raccolte Profanerie
private (Guarnerio Editore), Terra
altrui (Samuele Editore), Confidenze
confidenziali (Rayuela Edizioni), ed oggi la raccolta “Vietato aggrapparsi ai sogni!”, che include testi tratti da tutti
i libri precedenti, uniti ad un consistente numero di inediti più recenti.
L’impressione è che Natalia Bondarenko abbia aspettato il tempo necessario per
impadronirsi dell’espressività dell’italiano, permettendo così alle parole e
alle immagini di trovare la giusta dimensione, e che soltanto poi abbia –
giustamente – reclamato il diritto di essere letta ed ascoltata. Questa
raccolta assume così una duplice connotazione che è anche il suo valore
aggiunto: da un lato è una fotografia su ciò che l’autrice esprime oggi,
dall’altro descrive lo svolgersi di un percorso letterario che nella realtà è
molto più lungo di quello che gli anni trascorsi dall’uscita di Profanerie private potrebbero suggerire.
Infatti
la poesia di Natalia Bondarenko, come si è detto, cresce su radici
metabolizzate in modo personale e profondo, ed appare in diretta continuità con
la produzione novecentesca che ha scavato nell’antilirismo e nella
sperimentazione. I primi testi, in particolare, evidenziano spesso un certo
gusto per l’assurdo, sfiorando quasi atmosfere surreali o di asciutta ironia:
“Sai / pensare a te – è un lavoro usurante” o ancora “da oggi alla tua precoce
calvizie / mancherò anch’io”. Si tratta di una scrittura tagliente, certamente
non cattiva ma sincera fino a sembrare spietata, che riesce a dimostrarsi
fruibile ed immediata senza diventare accomodante e che ha la capacità,
attraverso l’alternarsi di vuoti e pieni, di pause e accelerazioni, di rendere
poetica una lingua ricca di spigoli ed angoli acuti.
È
un contesto in cui anche la padronanza dell’italiano riveste un ruolo
importante: padronanza certamente ottima, ma probabilmente diversa da quella
che potrebbe essere quella di un madrelingua. Ci sono momenti in cui si
evidenziano scelte lessicali che sfuggono alle più comuni categorie logiche a
cui siamo abituati, e l’effetto è indubbiamente straniante. Già nel titolo
della raccolta Profanerie private
spicca quel neologismo, “profanerie”, che racchiude in sé la pienezza di un
significato e al tempo stesso la forza di un vocabolo innovativo; lo stesso
approccio si trova in molti dei testi di Natalia Bondarenko, che riesce così a
conferire al lessico utilizzato una potenza evocativa fuori dal comune: “Il mio
nome è Natalia, /…/ di una banalità estrapolante / poco funzionante”, “l’omelia
delle zanzare”, fino a giungere a quello “strudel dell’anima” che può forse
strappare un sorriso, ma è un sorriso che non fa altro che sottolineare
l’inquietudine che l’immagine riesce in pochissime parole a rappresentare.
È
c’è soprattutto Natalia Bondarenko, come afferma lei stessa: “adesso, comunque,
ci sono solo io.” È una osservazione che potrebbe sembrare scontata, ma che
garantisce autenticità e verità alla scrittura nella misura in cui l’autore si
rivela e si mette in gioco. Natalia Bondarenko lo fa in modo totale, a volte
apparentemente mutevole ma sicuramente sincero, e per questo, come tutti,
oscilla fra gli stati d’animo che circoscrivono un essere umano: è ironica anche
con se stessa nel definirsi “un’oca migrante”, è tenace nel suo “testardo
rimanere inguaribile”, è conscia del trascorrere del tempo e contemporanea-mente
orgogliosa quando afferma che “la mia chioma bianca / può ancora essere
pericolosa.”
La
stessa inquietudine accompagna un altro dei temi fondamentali della poesia di
Natalia Bondarenko, quello del rapporto di coppia. L’amore è forse, fra i
molteplici aspetti della sua scrittura, quello dove diventa più evidente la
distanza tra il desiderio e la sua effettiva concretizzazione; verrebbe da
dire, anzi, che la scrittura della Bondarenko si insinua in questo distacco,
scava nella crepa che si spalanca e da questo punto di osservazione – scomodo e
spesso doloroso – racconta il percorso fatto e quello che resta da fare. È un amore che a volte viene definito da tutto
ciò che ne individua la mancanza, quando non deve essere “soltanto un innocuo
tormento”, o quando corre il rischio di venire soffocato dalle abitudini e
dalle parole non dette perché “mancano le spiegazioni a due corpi che hanno
smesso di fare l’amore”; in altri momenti diventa uno territorio immenso e
possibile, una somma di “spazi pronti per la bufera”. In tutti i casi, però, va
cercato e costruito, e dunque la sofferenza sembra essere un prezzo necessario
da pagare anche se dovesse rivelarsi soltanto un’illusione: “ho già inventato /
un amore di seconda categoria / poiché / la prima, / se i miei calcoli sono
giusti, / è soltanto il surrogato della seconda” scrive Natalia Bondarenko in
questi versi limpidi, disillusi e pieni di speranza al tempo stesso.
Accanto
alla dimensione dell’”io” e a quella del “noi due”, nelle poesie di Natalia
Bondarenko trova spazio anche una dimensione plurale e collettiva. Ciò accade
soprattutto nei testi più recenti, quando lo sguardo si allarga per cogliere
una vita che in ambito sociale sembra costruita di “coriandoli e maratone, /
del corri-compri per abitudine”, o ancora di “caffè senza gusto” e “tacchi alti
fuori dal tempo”. L’immagine, piuttosto amara, che ne scaturisce stride in modo
violento con l’interiorità dell’autrice e con la sua storia personale, e mentre
nella maggioranza dei passaggi l’osservazione porta ad una critica implicita,
in altri diventa invece molto più diretta, come quando scrive “nel paese dove
vivo ora / le sigarette – non fanno nulla. Le persone / con i loro pregiudizi
ti fanno morire prima”. Ma si tratta soltanto di pochi momenti di –
giustificata – indignazione, perché Natalia Bondarenko sa che il rischio di una
poesia troppo esplicitamente civile è quello di apparire forzata e didascalica;
preferisce piuttosto un atteggiamento meno rigido ma più sincero ed efficace,
rifiutando un integralismo di facciata (“non biasimo il poco, / il niente, / il
silenzio che non è mai abbastanza”) ma reclamando con forza il diritto
all’espressione dell’interiorità: “(biasimo) soltanto / il terrore di apparire
troppo superficiale”. L’aspetto più leggero della vita non è dunque un male ma
al tempo stesso non può diventare un fine, ed ecco allora che prende corpo la
ricerca di una solitudine necessaria, vissuta non tanto come fuga quanto come
momento necessario di sedimentazione della propria umanità. Non c’è
atteggiamento autocommiserativo in questa poesia, nemmeno quando afferma di
cercare di “evitare conversazioni inevitabili, / con poca musica, poca poesia /
e molta solitudine”, ma non c’è nemmeno il rifugio in una speranza utopica di
cambiamento, perché anche il giornale scrive che è “vietato / aggrapparsi ai
sogni”. Se - per fortuna - esiste una forma di resistenza, essa è affidata al
coraggio, alla limpidezza umana, alla tenacia di un percorso che cerca la
profondità anche dolorosa degli affetti, per potersi concretizzare nella
“geniale con-dizione di cambiare l’immutabile”.
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